A ispirare la decisione, la portata generale delle norme sull’attività di accertamento che, pertanto, valgono per la rettifica dei redditi di qualsiasi contribuenteSono imputabili al reddito imponibile i versamenti non giustificati, a prescindere dalla natura dell’attività svolta dal contribuente. Questa è, in sintesi, la precisazione fornita dalla Corte di cassazione, con la sentenza 19692 del 27 settembre, con la quale è stata confermata la legittimità dell’applicazione della presunzione legale (articolo 32, comma 1, n. 2, Dpr 600/1973), anche nel caso in cui il soggetto accertato non sia né un lavoratore autonomo né un imprenditore.
 
I termini della questione
In seguito a un’indagine della Guardia di finanza veniva notificato un avviso di accertamento a un amministratore di un’azienda (che percepiva redditi da quest’ultima in virtù di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa), per mezzo del quale veniva ricostruita la situazione reddituale dello stesso contribuente, sulla base di ingenti versamenti riscontrati su due conti correnti bancari a lui intestati e ritenuti non giustificati.
 
Avverso l’atto impositivo l’accertato aveva presentato ricorso alla Commissione tributaria provinciale, deducendo:
  1. l’illegittimità della procedura di acquisizione dei dati bancari (perché integrante duplicazione di precedente acquisizione di analoghi dati già realizzatasi nell’ambito di verifica riguardante la società, per mancanza di motivazione dell’autorizzazione prescritta per gli accertamenti bancari, per violazione dei termini di durata stabiliti dalla legge per l’attività di verifica e per la mancata instaurazione del contraddittorio)
  2. l’illegittimità dell’accertamento per inapplicabilità delle presunzioni di cui all’articolo 32, comma 1, n. 2, Dpr 600/1973
  3. l’infondatezza dell’atto impositivo per comprovata giustificazione di tutti i versamenti contestati.
 
La Commissione adita rigettava il ricorso. Veniva, quindi, proposto gravame e la Commissione tributaria regionale, allineandosi a quella che era stata l’impostazione dei giudici di prime cure, ha ritenuto non fondati i motivi sollevati dal ricorrente.
 
La decisione della Cassazione
Nel rigettare il ricorso proposto in cassazione dal contribuente, i supremi giudici si sono soffermati sulla valenza normativa degli articoli 32 e 38 del Dpr 600/1973, statuendo che tali norme “hanno portata generale e pertanto riguardano la rettifica delle dichiarazioni dei redditi di qualsiasi contribuente, quale che sia la natura dell’attività degli stessi svolta e dalla quale quei redditi provengano, la qual cosa in particolare è da ritenersi per quanto relativo all’applicabilità della presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2”.
 
La sentenza, pur ponendosi nel solco di precedenti pronunce, allarga l’ambito di applicabilità della presunzione di cui all’articolo 32 (anche se solo in riferimento ai versamenti) a una platea generalizzata di contribuenti, configurando in tal modo un’inversione dell’onere della prova a favore dell’Amministrazione finanziaria, la quale è legittimata a esercitare il potere accertativo nei confronti di qualunque contribuente che abbia intestato un conto corrente, indipendentemente dal fatto che svolga attività d’impresa o di lavoro autonomo.
Sembra, quindi, superata quella che era l’impostazione espressa dalla medesima Corte, con la sentenza 23852/2009, intervenuta sull’interpretazione della stessa norma. In quella pronuncia veniva, infatti, affermato che “la disposizione in esame non è però norma che di per sé legittima l’accertamento a carico di qualunque soggetto che abbia intestato un conto corrente, ma è norma che nell’ambito di un accertamento che abbia giustificazione in diverse norme (artt. 38 e 39, dello stesso DPR), consente di accertare il reddito (o i ricavi) del contribuente, con agevolazione probatoria (inversione dell’onere della prova) in favore del Fisco. [..] La presunzione opera pertanto sul quantum debeatur e non già sull’accertamento dell’an che deve trovare la sua giustificazione, come sopra visto, in altre norme”.
 
Con la sentenza in esame, invece, viene attuato un implicito ampliamento rispetto a quanto precedentemente statuito e sopra riportato, posto che i giudici supremi, operando un raccordo di principio tra gli articoli 32 e 38 del Dpr 600/1973 e sancendo in via definitiva la portata generale dei medesimi articoli, hanno ridisegnato il campo d’azione dell’applicabilità della presunzione di cui all’articolo 32 – con specifico riguardo ai versamenti rinvenuti sui conti correnti intestati al soggetto accertato privi di giustificazione e utilizzati per la ricostruzione del reddito – allargandolo, come anticipato, alla generalità dei contribuenti, a prescindere dall’attività da essi svolta. Si legge, infatti, che “né in contrario senso può fondatamente invocarsi il riferimento ai “ricavi” e alle scritture contabili contenuto nella suddetta norma, giacché esso risulta limitativo unicamente della possibilità per l’ufficio di desumere reddito dai “prelevamenti”, non potendo viceversa una simile presunzione trovare giustificazione per imprenditori o lavoratori autonomi, per i quali le spese giustificate possono infatti ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti. Ciò senza peraltro che l’utilizzo dei termini suddetti possa in alcun modo impedire all’ufficio di desumere per qualsiasi contribuente che i versamenti operati sui propri conti correnti, e privi di giustificazione, costituiscano reddito, dovendosi ritenere tale attività accertativa pienamente consentita dalla norma in esame e assolutamente ragionevole”.
 
Ulteriori spunti
Nella stessa sentenza viene, inoltre, precisato che:
  • per la verifica in banca è sufficiente l’autorizzazione dell’istituto (e non è necessario presentare una richiesta direttamente al contribuente, posto che “nessuna sanzione di nullità prevede l’art. 6 comma 4 L. n. 212/2000”)
  • l’avviso di accertamento non può considerarsi illegittimo per violazione dell’articolo 12, comma 5, legge 212/2000, relativo alla durata della verifica, in quanto il termine contenuto nella suddetta norma “si riferisce alla permanenza dei verificatori nei locali del contribuente, e non alla durata della procedura di verifica” (l’argomento è trattato anche dalla recente sentenza di Cassazione 19338/2011)
il preventivo contraddittorio tra ufficio e contribuente “costituisce oggetto di una facoltà per il primo, e non di un diritto per il secondo (Cass. 23.6.2006, n. 14675)”.

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